Ti puoi presentare per gli amici che ancora non ti conoscono?
Sono Valentina Rosati, fotografa di reportage freelance. Con la mia visione e con il mio stile amo raccontare la storia di ciò che vedo, con l’esperienza diretta sul campo e la documentazione per immagini dei fatti.
Da piccolo cosa sognavi di fare?
Amavo la storia e la storia dell’arte e continua ad appassionarmi. Mi sarebbe piaciuto fare l’archeologa. Fortunatamente continuo a scoprire cose nuove attraverso il mio lavoro ogni giorno.
La prima foto che hai scattato?
Grosso merito della passione per la fotografia lo devo al mio corso di studi in grafico pubblicitario alle scuole medie, dove ho iniziato a scattare e sviluppare in camera oscura. Da lì in poi, con una semplice compatta, ho cercato di catturare foto di luoghi e persone che mi circondavano durante i miei viaggi. Inoltre ho iniziato a scattare i miei compagni, di ogni età, della squadra master di nuoto del CUS Bari durante le gare e gli allenamenti ed è lì che è iniziato il mio progetto fotografico “No Limits. Sport oltre il tempo”.
Quali sono i fotografi a cui ti ispiri e perché?
Non ho un fotografo in particolare a cui mi ispiro o che cerco di emulare; studiando la fotografia credo bisogna saper far proprie una serie di caratteristiche da ogni autore, immagazzinarle e trasformarle, inserendole nel proprio DNA fotografico.
Alcuni fotografi però, più di altri, hanno guidato e guidano il mio lavoro e la mia fotografia: da Lewis Wickes Hine e da Walker Evans cerco di far mie la tecnica di rubare immagini di volti più naturali possibili. Adoro la schiettezza nella street photography di Robert Frank. Come non amare lo scatto “Muhammad Ali contro Liston” di Neil Leifer: momento perfetto, luci fantastiche e composizione sublime. Le luci del gran maestro Franco Fontana, in particolare New York, 1986. Per finire la pulita composizione di Bresson che attraverso le sue immagini descrivono sempre un tempo, un luogo e una circostanza ben definita. Robert Capa e il suo occhio empatico protagonista dei suoi reportage di guerra.
Cosa non è per te la fotografia ?
Di certo la fotografia per me non è scrivere un PH dopo il proprio nome. Non è un PH che identifica un fotografo. Non amo guardare immagini che non rispettano le regole di base e non hanno una storia o uno studio alle spalle. La fotografia non deve essere assolutamente un testo poetico (me la canto e me la suono) e poi scatto.
Qual è la sfida di ogni scatto?
Ricercare la verità, la personalità dietro ogni scatto e renderlo inedito, vivo e che sappia parlare senza un titolo.
Che cos’è la curiosità?
La voglia di conoscenza. Curiosità per me significa cultura tout court.
Chi o cosa ti piacerebbe fotografare?
Un po’ come in Outlander mi piacerebbe fare un viaggio nel passato e fotografare antichi rituali e danze nella Gran Bretagna. Seguire i grandi artisti come Michelangelo o Leonardo mentre costruivano o dipingevano. Insomma, essere stata la loro fotoreporter. Nel presente, invece, ho avuto la fortuna di fotografare personaggi famosi e luoghi importanti. Vorrei fotografare una coppia di anziani in Cornovaglia mentre recitano le preghiere per il loro Dio. Ma se vuoi sapere qual è la fotografia che preferisco ti rispondo “la prossima che farò”.
Mi parli del tuo progetto No Limits?
La fotografia sportiva è sempre stata la mia grande passione, fino a farla diventare pian piano il mio (nuovo, vero) lavoro. Proprio lo sport mi ha permesso di pensare e realizzare quello che è il mio primo progetto fotografico: No Limits. Sport oltre ogni tempo.
Progetto che è partito proprio durante le mie gare di nuoto master. E sono stati loro, signore e signori dai sessant’anni in su che scalpitavano anche più dei loro giovani colleghi prima di salire sui blocchi e tuffarsi per la loro gara, a catturare la mia attenzione.
Qual è il tuo prossimo progetto?
Ci sono diversi progetti in cantiere, sulla scia del progetto No Limits; ce ne sarà uno che riguarderà il mondo femminile. Il tutto in concomitanza con un progetto che racconterà il territorio della Puglia e della Basilicata da un punto di vista, diciamo così, alternativo.
Quali tappe hai attraversato per diventare il fotografo che sei oggi?
Nasco professionalmente in un’agenzia di consulenza di marketing e comunicazione al cui interno ho eseguito inizialmente mansioni di project management e di responsabile dell’area comunicazione visuale fino a prendere integralmente la responsabilità della divisione fotografica.
Che difficoltà hai incontrato lungo il tuo percorso?
Lo scoglio più grande è stato quello della “consapevolezza”, nel capire e nel definire chi sono, che fotografa sono e quella che vorrei essere. Piano piano ci sono arrivata e ora ho le idee sicuramente più chiare, ma non smetto di pormi domande.
Quali esperienze decisive hai avuto nell’ambito fotografico?
Sicuramente l’incontro con una fotografa di reportage, Betty Colombo, che mi ha permesso di capire e definire quella che volevo essere e cosa dovevano esprimere le mie fotografie. È a lei che devo il mio nuovo percorso professionale e la consapevolezza di poter dire “sì, io sono una fotografa di reportage”. Lei mi ha regalato la possibilità di capire la mia visione e come esprimerla negli scatti. E poi la mia prima mostra. Emozionante e devastante allo stesso tempo, non credevo fossero le mie quelle foto lì appese e ammirate dal pubblico. Quasi volevo sottrarmi ai complimenti, guardavo tutti dal “buco della serratura”.
Che cosa è necessario per poter cogliere l’attimo giusto?
L’attimo giusto? Bella domanda, tutti direbbero la pazienza ma io sono convinta che non sia questione solo di pazienza. La scatto nasce prima nella tua testa, è lì che inizi a previsualizzarlo e poi a renderlo tuo all’interno di un contesto. Lo studio, la visione di tante immagini metabolizzate e portate dentro di sé non fanno altro che aiutare a coltivare quell’intuito (tanto caro a Bresson) che ti fa dire “ecco, ho il mio scatto!”.
Che rapporto cerchi di instaurare con le persone/soggetti che vuoi ritrarre?
Prima di ritrarre un soggetto cerco di entrare in contatto con lui, cerco di conoscerlo in modo da farlo stare a proprio agio. Cerco di cogliere durante quel dialogo le micro-espressioni che rendono caratteristico un volto. Cerco la sua personalità andando oltre la forma.
Cosa ha influenzato il tuo stile?
Certamente il mio lavoro e la mia formazione in comunicazione e semiotica. E l’arte, la storia dell’arte. Attraverso le meraviglie che i grandi artisti del Rinascimento e non solo ci hanno lasciato in eredità ho perfezionato sempre più il mio stile e l’uso della luce.
Quali sono i problemi che riscontri oggi nel fotografare?
Credo che uno dei problemi maggiori nella fotografia di reportage sia la burocrazia nei tempi di approvazione di un prodotto fotografico.
Ci racconti un tuo aneddoto particolare o simpatico?
Dicono che ogni volta che esco per uno shooting me ne torno con qualche livido, qualche ferita e che faccio cose pericolose! È vero (ahimè) e pensa che io non amo per niente il pericolo ma forse proprio per questo mi ritrovo spesso involontariamente in situazioni pericolose: su un precipizio, in una foresta col temporale sulla testa, a ridosso di una scogliera col mare in burrasca o sotto una cascata in bilico su qualche pietra instabile! Quello che posso dire è che dopo ogni reportage porto con me un pezzo di storia, di racconti di gente che incontro. Mi piace portare a casa un nuovo modo di vedere le cose e raccontare la mia esperienza.