Ti puoi presentare per gli amici che ancora non ti conoscono ?
Nel presentarmi come fotografo potrei dire che lo faccio come lavoro dal 1992 e ho fatto il primo scatto reflex nel 1989. Ho lavorato 18 anni per case editrici e riviste, italiane e straniere, nel settore arte e beni culturali. Poi ho fatto fotografia di nautica, industria, scienza e militaria. Qualche libro per la Marina Militare. Poi nel 2004 ho iniziato a insegnare fotografia, riducendo molto il lavoro per l’editoria, e mi sono finalmente dedicato al paesaggio, che era la mia passione rimasta nel cassetto. Nel presentarmi come persona direi invece che sono uno sconsiderato con poco senso pratico, un curioso che insegue le sue passioni; direi inoltre che fino al 2010 ho fotografato per gli altri e solo allora ho iniziato a fotografare per me.
Da piccolo cosa sognavi di fare?
Il paleontologo. Ma anche l’astronauta o il fotografo di National Geographic. Ma tanto mi piaceva il cacciatore di fossili che presi geologia. Poi però capii che in Italia il geologo non vive come una vita avventurosa nei film americani, perchè qui non esiste la ricerca: sarei finito a fare i sondaggi per le case annegato nella burocrazia. Quindi lasciai e, scartato l’astronauta, decisi di fare il fotografo.
La prima foto che hai scattato?
Una arancia sul tavolo. Mi piaceva l’effetto rilievo della buccia.
Quali sono i fotografi a cui ti ispiri e perchè ?
Mi ha sempre affascinato il paesaggio, perchè mia zia americana sin da piccolo mi regalava l’abbonamento a Geographic, quello in inglese ovviamente. Ci sono cresciuto. Mi ha plasmato. Mi ha fatto amare la montagna nonostante viva al mare, mi ha fatto diventare fotografo e mi ha fatto imparare l’inglese come l’italiano. Poi ho avuto la fortuna di lavorare per i fotografi americani del Magazine come assistente all’inizio, e come co-project poi. Le mie fonti di ispirazione sono sempre state i loro fotografi, in particolare Jodi Cobb, Mike Yamashita, James Stanfield, con cui ho lavorato nel progetto sull’impero romano, e Lou O. Mazzatenta, con cui ho fatto due progetti fotografici sull’Italia: Italy’s endangered art treasures e Italics.
Cosa non è per te la fotografia ?
Successo, affermazione sociale. Io sono io, e come lavoro faccio il fotografo. Non sono il “fotografo”.
Qual e` la sfida di ogni scatto?
Ogni scatto è una sfida. So di non saper fare tante cose e che quelle che so fare le so fare mediocremente, quindi so che devo sempre sperimentare, migliorare, imparare e ovviamente posso fallire. Ogni scatto è una incertezza, perchè so di non essere perfetto.
Che cos’e` la curiosita`?
La molla di tutto. Si vive per scoprire e in tutto c’è qualcosa da scoprire. Io non sono un cultore della fotografia in luoghi fantastici e famosi. Mi piace invece andare in un posto qualsiasi e capire cosa nasconde nelle sue pieghe, cercare l’interessante nel nulla. E c’è sempre. Ci sono posti banali dove torno da anni, e ogni volte ci entro in contatto in modo più profondo, e scopro nuove foto.
Chi o cosa ti piacerebbe fotografare ?
L’invisibile: quello che nessuno ha visto nonostante sia li sotto gli occhi di tutti. Parlando in maniera più concreta, anche se so che può sembrare surreale, il mio sogno è fotografare un test nucleare. Sono sempre stato affascinato dai video e dalle foto di quell’evento. Ho un libro fotografico che si chiama “100 soli”, straordinario: la manifestazione di potenza più affascinante che si possa vedere. In rete si trova un documentario bellissimo sullo staff di fotografi che seguiva negli anni questi test.
Qual e` il tuo prossimo progetto?
Giordania, la notte nel deserto di wadi rum. Ci sono stato anni fa ma non ero ancora in grado di fotografare la notte. Ora voglio tornarci.
Quali tappe hai attraversato per diventare il fotografo che sei oggi?
Ho iniziato come amatore con una Yashica. Poi diventai assistente di un fotografo di moda, per capire soprattutto l’uso delle luci. Nel frattempo ero diventato giornalista e facevo l’addetto stampa di un ente che si occupava di archeologia subacquea. Quindi fotografavo sott’acqua i cantieri archeologici. Lavorai a Brindisi sulla Nave dei Bronzi, e quando Geographic volle farci un servizio mi presero come assistente perchè parlavo inglese. E da li iniziai a lavorare con loro e con riviste occupandomi di fotografia di archeologia e arte. Poi passai ai beni culturali, per riviste e libri. Negli anni ’90 feci molti lavori all’estero: Egitto, Israele varie volte, Giordania, Albania, Ucraina. In Israele inizia a lavorare anche per il settore militare. Poi sono passato alla nautica di lusso, e da li alla Marina Militare.
Che difficoltà hai incontrato lungo il tuo percorso?
Essendo basato in Italia ho sofferto molto del modo di lavorare italiano. Qui, a differenza di altri paesi, non esistono realtà che investono su di te. Ti sfruttano e quando chiedi qualcosa ti cacciano e prendono il prossimo in lista. Se non sei “amico di” difficilmente entri in qualche redazione e se ci entri resti sempre in fondo, scavalcato dall’amico di, dalla fidanzata di, da quello del partito x. All’estero è totalmente diverso: porti le tue foto, ti valutano e se sei bravo lavori. E se sei bravo investono su di te. Per questo ho lavorato più con editori stranieri che italiani. E poi in Italia spesso entra in gioco la mazzetta: lavori se…
Quali esperienze decisive hai avuto nell’ambito fotografico?
L’aver fatto l’assistente prima, e il co-project poi, per i fotografi di Geographic.
Che cosa è necessario per poter cogliere l’attimo giusto?
Prevederlo. L’attimo lo coglie chi lo ha pensato, visto e disegnato nella sua mente.
Che rapporto cerchi di instaurare con le persone/soggetti che vuoi ritrarre?
Empatia.
Cosa ha influenzato il tuo stile?
Non saprei neppure se ho uno stile. Io sogno, mi piace sognare perchè non mi piace la realtà che vedo. Quindi cerco sempre di trascendere la visione reale in qualcosa di onirico, di surreale. A volte mi piace Tim Burton, a volte Alice nel paese delle meraviglie.
Quali sono i problemi che riscontri oggi nel fotografare ?
L’assenza di autorità qualificata nel giudicare. Prima i fotografi venivano giudicati da photo editor professionisti, gente qualificata, esperta, con una eccellente capacità di visione e giudizio. Ma soprattutto imparziale. Erano pochi, qualificati e onesti culturalmente. Oggi esistono i social che decretano il “valore” di un fotografo. Ma nei social non ci sono photoeditor… Questo impedisce ai nuovi fotografi di crescere. A me ha insegnato molto di più il NO (motivato e spiegato) di un photoeditor come Lello Piazza o Kent Kobersteen che i mille “bella foto” di amici.
Ci racconti un tuo aneddoto particolare o simpatico?
Andai a Pozzuoli a fotografare le catacombe vicino alla solfatara. Mi accompagnavano in tre. Arrivati mi indicarono la strada per scendere. Chiesi se venivano anche loro. Mi dissero di no, perchè sotto ci potevano essere gas tossici. Anzi, da sotto dovevo parlare continuamente perchè se smettevo capivano che ero svenuto e correvano a prendermi. I piccoli incerti del mestiere: mai parlato tanto in vita mia come quella volta.
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