Bentornati a “Racconti Fotografici” eccoci alla 61° edizione , oggi intervistiamo il fotografo Andrea Pistocchi , buona lettura.
- Ti puoi presentare per gli amici che ancora non ti conoscono?
Sono Andrea Pistocchi, non mi considero un fotografo professionista e mi servo della fotografia per riflettere sulla realtà che mi circonda e per conoscere meglio me stesso. Credo di essermi innamorato della fotografia nei lontani pomeriggi della mia adolescenza, in un piccolo laboratorio fotografico allestito in un’aula dismessa del liceo che frequentavo. La luce rossa della camera oscura all’inizio mi spaventava: le bobine con le pellicole da sviluppare (rigorosamente bianco e nero), le bacinelle con i bagni d’acido, l’ingranditore. Poi, all’improvviso, dal nulla, l’immagine si disegnava sulla carta. Indescrivibile l’emozione che mi frantumava il ventre e che si rovesciava nelle vene. Da allora la fotografia si è intrecciata alla mia vita in maniera indissolubile.
- Da piccolo cosa sognavi di fare?
Non ricordo di aver mai nutrito sogni di gloria, di aver desiderato di essere popolare o famoso, né di essermi mai abbandonato ad aspirazioni chimeriche. Sono sempre stato un tipo riflessivo. Da bambino non volevo andare all’asilo e ricordo che spesso rimanevo a casa. Ho un ricordo nitido, terribilmente nitido, di me seduto sulle scale del pianerottolo che si affacciava sulla strada. Rimanevo per ore seduto ad osservare le formiche che affrontavano senza paura qualsiasi salita. Probabilmente è lì che è cominciata la mia indagine del circostante.
- Quando e come è nata la tua passione per la fotografia? E se lo ricordi, qual è stata la prima foto che hai scattato?
Ricordo che durante le feste di compleanno e le cerimonie mi ritrovavo spesso a spiare il fotografo di turno, ne osservavo con attenzione i gesti, le posizioni, cercavo di capire cosa facesse, aspettavo con trepidazione il rumore dell’otturatore. Lo trovavo molto musicale. Mi incuriosiva tantissimo quell’attrezzo tra le mani del fotografo, mi sembrava uno strumento per setacciare la realtà, per catturare la luce e scrivere il mondo con essa. Ricordo benissimo la prima fotografia che ho scattato, è un momento indelebile nella mia memoria. Erano i primi anni novanta ed io frequentavo le scuole medie. Un giorno mi presentai a casa di mio zio con una pellicola Kodak da 24 pose stretta nel palmo della mano e gli chiesi in prestito la macchina fotografica, una Yashica fx-3. Dopo avermi aiutato a montare la pellicola, con un gesto di fiducia impagabile, mi permise di uscire a fotografare. Andai in un vecchio lavatoio che si trovava vicino casa. Le mie prime foto le ho scattate lì. Le 24 pose durarono pochi minuti e credo di non aver sviluppato mai quel rullino. Quel giorno per sono certo di aver impresso per sempre la fotografia sulla pellicola della mia esistenza.
- Quali sono i fotografi a cui ti ispiri e perché?
Di Fotografia ne vedo tanta. Partecipo a forum, gruppi fotografici, acquisto riviste, passo ore in libreria a sceglier testi dai quali imparare; insomma cerco di documentarmi il più possibile. Osservo ogni immagine con attenzione, da quella del fotoamatore a quella del professionista, e cerco di apprendere e capire ogni scatto che desti il mio interesse. Ovviamente per ho dei riferimenti a cui mi ispiro: apprezzo moltissimo il lavoro di Sebastiao Salgado, Steve McCurry, Josef Koudelka, Annie Leibowitz e Joel Meyerowitz; adoro il Maestro Gianni Berengo Gardin, mi piace Ivo Saglietti e sono affascinato dall’eleganza di Giovanni Gastel. Il vero amore (almeno il primo amore) per è stato per Francesca Woodman, ancora oggi un punto di riferimento essenziale per il mio linguaggio e la mia ricerca espressiva. Attualmente inoltre osservo con attenzione anche il lavoro di Marta Bevacqua.
- Che cosa non è per te la fotografia?
Nelle mie fotografie cerco di far percepire il silenzio. La costruzione dell’immagine diventa quindi un dialogo che punta all’introspezione di chi la osserva. Il mondo di oggi è veloce, tutto corre con rapidità e poco o nulla sedimenta fino a diventare spessore. Immagini, colori, luci sollecitano ininterrottamente la nostra attenzione, sottoposta a stimoli continui che spesso distraggono l’osservatore e non di rado finiscono per narcotizzarlo. Io mi sforzo di trovare un principio di ordine al caos circostante e lo cerco nei dettagli, in particolari a prima vista insignificanti, talvolta perfino invisibili. Provo a richiamare l’attenzione sulle sfumature del quotidiano che spesso passano inosservate, ma che in realtà fanno la differenza. Se dunque potessi stabilire cosa la fotografia non è risponderei senza esitazione che essa non è confusione: non pu esserlo se, com’è per me, è uno strumento per sfuggire al rumore costante di sottofondo che cattura e distoglie l’attenzione, un mezzo per allontanarlo e metterlo per un istante a tacere.
- Colore o Bianco e Nero, hai preferenze?
La scelta tra colore o Bianco e Nero pu cambiare completamente il risultato di una foto. Personalmente, pur scattando sempre a colori, tendo ad immaginare la scena in Bianco e Nero osservando attentamente la luce, le zone d’ombra, i contrasti. Come ho detto, per me la fotografia è qualcosa che filtra il superfluo, setaccia le impurità e lascia affiorare la parte più profonda della superficie. A questo tipo di ricerca, che lavora per sottrazione, eliminazione, direi quasi liberazione, si adatta senz’altro meglio il Bianco e Nero, perché credo che esso non si sveli mai fino in fondo e proponga quindi un’indagine costante, perenne: è lo spettatore che ogni volta porta a compimento il messaggio. Una foto in Bianco e Nero non cerca di competere con il mondo esterno, di cogliere qualcosa che esso è o mostra. È piuttosto un’interpretazione del mondo che, con il suo distanziarsi dal modo in cui esso si offre naturalmente al nostro sguardo, invita a riflettere, a interrogarsi.
- Quali tappe hai attraversato per diventare il fotografo che sei oggi?
Io ho la fortuna di non vivere del mio lavoro di fotografo. Per me la fotografia è un mezzo espressivo come lo sono la pittura, la scultura o la poesia, strumenti che utilizzo per placare la mia necessità di raccontare il circostante. Se fosse un lavoro sarei costretto a rispettare dei tempi e a sottostare alle condizioni che fanno parte di qualsiasi lavoro. Invece mi posso muovere liberamente dedicandomi completamente a quello che mi piace raccontare. Ho sempre vissuto questa passione con molta libertà, usando l’immagine come mezzo espressivo della mia ricerca artistica e passando anche lunghi periodi senza scattare affatto. Fondamentalmente io so di non essere un fotografo e questa consapevolezza alimenta ancora di più la mia curiosità e la mia volontà di migliorare.
- Che difficoltà hai incontrato lungo il tuo percorso?
Io sono autodidatta e le difficoltà maggiori, soprattutto nel primo periodo, le ho trovate dal punto di vista tecnico. Quando ho preso la mia prima reflex digitale mi sono accorto che c’era un gran lavoro da fare, soprattutto per il processo di post produzione, per imparare quei piccoli passaggi che mi servono per sistemare le mie foto. Ad ogni modo il mio intervento in post produzione è davvero leggero, mi limito a sistemare contrasto, bilanciamento e distorsione prospettica. Lavoro sul bianco e nero principalmente e quando scatto cerco di avere un’immagine che sia già sulla buona strada per diventare quello che ho in mente.
- Che cosa è necessario per poter cogliere l’attimo giusto?
Essere, come si dice, al posto giusto al momento giusto non basta. Potrà sembrare banale, perfino scontato, ma un fotografo deve essere sempre pronto, perché il momento giusto pu arrivare in qualunque momento. Per cogliere l’attimo è necessario riuscire ad interpretare la scena che si ha davanti agli occhi, ascoltare l’emozione che essa ci trasmette ed aver ben chiaro come la si voglia catturare. Naturalmente, per restituire il concetto che si è immaginato è fondamentale la scelta della focale: in alcune scene è importantissimo allargare il campo visivo e quindi un grandangolo aiuta la teatralità del contesto, altre volte il dettaglio crea emozioni profondissime e quindi stringere il campo è l’unica strada percorribile. Il contenuto emotivo delle immagini è per me molto importante: quando mi appare davanti la scena che cerco, la scena che mi coinvolge, che mi parla, allora scatto.
- Che rapporto cerchi di instaurare con le persone/soggetti che vuoi ritrarre?
Io racconto storie, cerco di descrivere un’emozione e di far partecipare emotivamente chi guarda a quel frammento di quotidiano presente nella mia immagine. Per raccontare questo posso utilizzare il paesaggio, la macro o la street. Fotografo senza seguire una traccia ben definita e preferisco lasciare che sia il momento a suggerirmi il da farsi. Tra tutti i generi fotografici per mi sento molto legato al ritratto. È una forma espressiva che sento mia. Con il ritratto cerco di raccontare le persone o di catturare di esse qualcosa che lo spettatore possa percepire come il dettaglio di una storia. Difficilmente dunque faccio ritratti di soggetti in posa, o che sanno di essere fotografati.
Spesso, per superare l’imbarazzo iniziale, cerco di creare una situazione in cui il soggetto si senta a proprio agio, parlo con naturalezza, provo ad essere spiritoso. Di solito mentre sto parlando scatto delle foto all’improvviso senza nemmeno inquadrare il soggetto: è un modo per farlo abituare al suono dell’otturatore, per rendermi conto della sua reazione, per capire se devo essere io a seguirlo o viceversa. Insomma cerco di capire come ottenere il risultato più interessante e più naturale possibile. Talvolta parlare mi aiuta anche a conoscere meglio il soggetto e la cosa non è superflua, perché instaurare una certa empatia permette di raggiungere l’espressività più naturale e quindi di restituire un racconto che vada oltre la bella fotografia. Inoltre, in un ritratto come in tutti gli altri scatti, non mi fermo mai alla superficie di quello che vedo: mi sforzo di fissare un frammento di vita, di afferrare la purezza di un’emozione o di catturare nel soggetto le macerie interiori che pesano in ognuno di noi.
Per come lo intendo io, il ritratto è il punto di partenza di una ricerca che va oltre la storia personale del soggetto stesso, che mira ad essere qualcosa di più grande e di più profondo. Quando essa approda allo spettatore, la foto diventa un racconto che questo, come se entrasse nell’immagine e cominciasse a viverla, pu portare a compimento.
- Cosa ha influenzato il tuo stile?
Ho frequentato L’Istituto D’Arte e L’accademia Di Belle Arti durante il mio ciclo di studi sono completamente rimasto folgorato dai grandi maestri della storia dell’arte. Se dovessi sceglierne uno tra tutti per direi sicuramente Caravaggio, è uno degli artisti che maggiormente hanno cambiato il mio modo di osservare le cose. All’inizio cercavo di copiarlo in maniera invereconda, senza alcun pudore e con il tempo ho dovuto fare un grande lavoro su me stesso per disintossicarmi dall’abuso della vignettatura che usavo per ottenere forti contrati tra bianco e nero. Altre influenze importanti le ho avute dalla letteratura e dalla poesia, sono dipendente dalla poesia ne leggo tantissima e mi accorgo che condiziona molto il modo di osservare le cose.
- Qual è il tuo prossimo progetto?
Mi piacerebbe realizzare un libro, sto valutando le possibili traiettorie da seguire. Mi piacerebbe raccontare la bellezza della donna non dal punto di vista fisico ma da quello intellettivo. Sono dell’opinione che non raggiungeremo mai la parità dei sessi perché le donne sono intellettivamente più emancipate e noi maschietti possiamo solo inseguire. Oggi che purtroppo si sentono così tanti casi di violenza e di abusi mi piacerebbe sottolineare che il mondo pu diventare un posto migliore solo se diamo più importanza, più rispetto alle capacità femminili.
Andrea Pistocchi